domenica 15 febbraio 2015

L'eskimo che conoscevi tu

Giovedì 28 gennaio.

Un giorno come un altro. Uno di quei giorni in cui ti prendi ferie mentre gli altri lavorano e ti sembra così di essere tornato studente.

E' un po' di tempo che cerco un pretesto per chiudere questo blog e tirare le somme dell'esperienza americana.
In fin dei conti, sono passati quasi 6 mesi e sarebbe ora di buttar giù l'ultimo post, per poi passare al lavoro sul libro di carta che, ormai è tradizione, raccoglie le foto e questi scritti dei miei ultimi viaggi.

Magari oggi è il giorno giusto per chiudere questo conto.

Sto andando, assieme a Luca, a Padova, la città dei miei studi universitari di Fisica.
Viaggiamo su una Fiat Punto molto spartana. E' un'auto di servizio che mi hanno prestato in emergenza, dopo che la mia BMW è stata squarciata nella notte, sotto casa, nella centralissima via Solferino, a Milano. 
Ladri specializzati che hanno ignorato tutto il resto, hanno sradicato il navigatore satellitare integrato nella plancia. Mi dicono che ne useranno l'elettronica per  contraffare l'immobilizer e poter poi rubare, in tutta tranquillità, una macchina come la mia.




Mentre guido, piacevolmente stupito dalla buona resa della piccola utilitaria, racconto a Luca che, come oggi, 71 anni fa, Verona si svegliava attonita dopo il primo bombardamento massiccio della Seconda Guerra Mondiale. 
Il mio papà mi raccontava sempre che centinaia di persone erano morte a Santa Lucia.
In particolare, quasi tutte le operaie della fabbrica FRO (Fabbriche Riunite Ossigeno)  furono sepolte dagli ordigni sganciati da un centinaio di bombardieri americani. 
L'insediamento industriale che, oggi ristrutturato, ospita un Bingo e qualche negozio, aveva la sfortuna di trovarsi troppo vicino all'immenso Scalo Merci Ferroviario, vero obiettivo delle bombe. L'enorme fascio di binari è rimasto immutato ed allaga, come allora, la riva sud della città quasi fosse il delta di un fiume.

Mi sono offerto di accompagnare Luca a sostenere il test di ammissione a Medicina in inglese alla Cattolica di Roma  perché lui è leggermente influenzato e febbricitante. Gli evito così gli sbalzi di freddo di uno spostamento con i mezzi pubblici.

La vera verità è però che ho proprio voglia di tornare a Padova, mille anni dopo la mia ultima volta da studente. 
Quasi a chiudere un conto rimasto aperto tanto tempo.

Già mi vedo, mentre Luca è impegnato nell'esame, ricalcare i passi che, prima assieme ad Enrico Girardi e poi da solo, ho impresso sulla strada che va dalla stazione ferroviaria all'Istituto di Fisica Galileo Galilei o a quello di Matematica al Paolotti.

Così, quasi in punta di piedi, sfioro di nuovo quel percorso che, passando attraverso l'allora modernissima sede dell'Antonveneta (che è ancora lì) e la stazione delle corriere (che oggi invece non c'è più) ci portava, ogni giorno uguale, verso via Marzolo, sede del nostro istituto.

I miei passi, lenti, esitanti, più che aiutarmi a chiudere un capitolo, aprono le immagini ed i ricordi di quegli anni. 

Vedo i giovani di adesso e riconosco i visi di allora. 

Da Matteo Pegoraroff (così soprannominato da me ed Enrico per via del suo aspetto da cosacco) ai Filtri (tre ragazzi, un alto, una basso e uno grasso che chiamavamo, a loro insaputa, Passa Alto, Passa Basso e Passa un Casso...). 
Mi sembra di rivedere anche Abel e Furlan, i due assassini chiamati Ludwig, che frequentavano matematica negli stessi anni nostri. 
Dal nostro osservatorio di pendolari solitari e un po' emarginati, avevamo affibbiato un soprannome a chiunque ci capitasse a tiro, ma quei due, benché molto riconoscibili, erano troppo alteri e strani e, chissà perché, non avevamo coniato nulla di particolare per loro (o almeno non ricordo).

A pensarci bene, eravamo ben strani anche Enrico ed io.

Eskimo verde lui, blu io (un regalo del papà di Laura) giravamo sempre assieme, quasi sempre soli.  Chissà quante voci correvano allora sul nostro conto. Certo, noi (con l'innocenza dentro al basso ventre) non facevamo niente per non dare nell'occhio. Barba e capelli lunghi, sfoggiavamo spesso un atteggiamento quasi sognante. A volte, per ridere o per stupire, camminavamo in mezzo alla strada, mano nella mano, simulando andature strane o improbabili accompagnamenti di non vedenti sbattuti maldestramente contro i pali della luce (in genere il cieco lo facevo io).     

Accompagnato da questa specie di visioni, arrivo presto in via Marzolo. 

La vecchia mensa universitaria  con la sua puzza di code e rancio rancido e la Casa dello Studente, luogo di promiscue ammucchiate proibite a noi sfigati senza posto letto, sono chiuse, sbarrate, in stato di disarmante abbandono.




Sul muro, uno sgargiante murales incita alla lotta, resistenza, autogestione.  Purtroppo però da gestire non c'è più nulla. Dai vetri delle finestre del primo piano, si intravedono scaffali su cui resistono solo vecchi pacchi di pasta e vettovaglie, ultimi residui della patetica fureria di una probabile parentesi di lotta autogestita.

La visione mi scoraggia. Un degrado così profondo mi sembra stridere fin troppo al cospetto della folla di ragazzi e ragazze che, come noi allora, si affannano a raggiungere le aule negli edifici sedi di Istituto. Nemmeno il fatto che la via sia diventata pedonale riesce a ravvivare questa scena di degrado.

Il paragone con la Bocconi di Enrico ed i momenti della sua laurea Magistrale irrompono nella mente come una pubblicità a colori nel mezzo di un film in bianco e nero. Ricordo la vivacità di quell'ambiente e l'allegra serietà di quegli istanti (bellissimo intermezzo tra la fine del viaggio in America ed oggi).  Per non parlare poi  della mia laurea. Una scena fantozziana. Io, da solo,  davanti alla commissione  e, laggiù, nel fondo di un'immensa sala vuota, Laura e la mia mamma, sole ed imbarazzate come due suore costrette ad assistere alle riprese di un film hard.

Altroché il video, gli applausi e le bottiglie di champagne.

Per fortuna, arrivando all'Istituto, pochi metri più avanti, il paesaggio riprende una sua luce e manifesta una vita quasi uguale a quella che ricordavo. 
Rinfrancato dal calore di questo sole, salgo sicuro gli scalini dell'ingresso principale.
Arrivato al portone mi accorgo però che lo scorrevole non si apre senza un badge.
Mi arrabatto quindi, dichiarando alla signora in portineria il mio stato di ex-ex-ex studente. Riesco ad impietosirla recitando con disinvoltura i nomi dei miei professori di allora. Lei si convince e mi lascia entrare.




Una volta dentro, cerco di essere invisibile. 
Tutto è quasi uguale a come lo  ricordavo. 
In realtà, non so come interpretare questo fatto. 
In fin dei conti, qualche segno di modernità potrebbe indicare una situazione al passo coi tempi. Invece no. Le porte, addirittura le etichette con i nomi dei professori sono, in molti casi, le stesse di trent'anni fa o giù di lì.
Perdendomi nei corridoi, alla ricerca delle aule di lezione, scatto clandestinamente qualche foto col cellulare per messaggiare con Enrico Girardi e metterlo alla prova con nostalgici indovinelli. 




Il tempo passa senza accorgermene e mi trovo, non so come, davanti all'aula B, la più moderna delle aule grandi. 
E' esattamente come la ricordavo. 



Tra gli studenti, mi par di vedere Insidia, la ragazza più carina (e anche più brava) del nostro corso. Enrico ed io l'avevamo battezzata così, incapaci di avvicinarla veramente, per definire l'alta carica di distrazione che esercitava su di noi durante le lezioni.  

Osservo i ragazzi e metto a fuoco il loro vestiario.  

Forse è il fatto che sono a Fisica e non ad Economia, ma sono tutti un po' trasandati, esattamente come eravamo noi. Maglioni anonimi ed un po' slabbrati. Jeans o braghe di velluto senza marca. Scarpe insensibili alla moda.
E poi, in molti, spesso anche le ragazze, indossano un eskimo. Verde, con il simil-vello di pecora all'interno. Non proprio come quello di quei tempi là, ma, insomma, abbastanza sciatto e molto simile. 

Magari, chi lo sa, è un capo che adesso costa un botto...

Fatto sta che, l'impressione di aver 15 (per 2) anni in meno e avere tutto, come loro, per possibilità, illumina, d'improvviso,  la mia vita di adesso assieme  alla sua lunga storia di attimi vissuti intensamente.
Come un ponte che unisce quell'ieri a quest'oggi. Con tutto il bene (tanto) ed il poco male che c'è stato da allora e fino a qua. 

Per qualche minuto, me ne resto lì in mezzo ad assaporarmi, imbambolato, questa emozione. 
Con il mio Woolrich  e il mio zainetto Eastpack chissà cosa pensano di me.

Quando è l'ora di tornare a prendere Luca, mi incammino lentamente verso la sede del suo esame, rimproverandomi di essermi perso in nostalgie (da ricchi...) e di non aver ancora trovato un'immagine adeguata a 'sto benedetto post di chiusura.

Poi tutto ad un tratto, mi rendo conto che, in un tempo più ristretto, quello che sto cercando è uno stesso ponte  tra quell'ieri (l'ultimo giorno del nostro viaggio) e quest'oggi (quello, che non arriva mai, in cui trovo il pretesto per chiuderlo del tutto).

E allora, mi accorgo, senza volerlo, che la stessa sensazione di aver vissuto bene ed intensamente ogni momento, si adatta anche a questo periodo, molto più breve, ma senz'altro intenso.

In un attimo rivedo il ritorno al lavoro, questa volta meno traumatico, la laurea di Enrico,  la breve ed intensa vacanza in Toscana, quella più lunga ed altrettanto intensa, tutti e cinque, anzi sei (anche Asia è venuta con noi) sulle "non nevi" di Corvara.
Ed anche la sensazione così forte e subito condivisa con amici veri, provata durante alcune serate di giovedì Al Volo, con le jam session improvvisate in cui sei a Caselle, ma ti senti a San Francisco.

Ecco che, si, il blog bisogna chiuderlo, ma, alla fine, è la questione di un solo attimo. Giusto il tempo di scattare la fotografia di quest'ultimo ponte per poterlo poi imprimere su quella carta che sarà la sua memoria. 

Che poi, non sarà l'ultimo, oramai...


P.S.: siccome il ponte ha gettato la sua ultima arcata un po' più in là del 28 gennaio... e, oggi che scrivo è in realtà il 15 febbraio, faccio a tempo a dire, con l'orgoglio di genitore, che quel giorno, quelle emozioni, hanno portato fortuna a Luca. E' passato all'esame di ammissione (20°!) ed ora si trova in mano la possibilità di frequentare la facoltà che desidera nella prestigiosa università di una magnifica città. 
Eskimo o meno, anche questo sarà un nuovo ponte da costruire...